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SOSPESI NEL TEMPO...

La sonda retrocede nel tempo. Sporadici frammenti di organismi sconosciuti comunicano alcune imprecise informazioni sul tempo in cui hanno vissuto, poi la roccia, quella stratificata e diversificata sotto il fondo del mare sorprende tutti quanti. Trecento metri di solidi conglomerati e diamictiti ed all’improvviso dal pozzo una risalita per diverse decine di metri d’acqua e sabbia che blocca i meccanismi di perforazione costringendo ad un imprevisto blocco dei lavori. Stop meditativo e poi la decisione: ritiro immediato delle aste di perforazione ed iniezione di cemento a presa rapida per consolidare uno strato che si pensava solido e roccioso ma che inaspettatamente ha mostrato la propria fluida natura. Si ristudia il profilo sismico utilizzato per prevedere quali strati si sarebbero incontrati durante la perforazione, sembra che un segnale simile a ciò che si è appena incontrato, si ripresenterà a 650 metri, la speranza è che la struttura resista e che si possa continuare a perforare, magari anche consolidando saltuariamente. Una discontinuità di lavoro che produce nervosismi, si cercano pertanto alternative per riempire la giornata. Per la prima volta, un mio turno libero coincide con una splendida nottata di sole, decido pertanto di avventurarmi nei dintorni della base per cercare qualche scatto suggestivo o comunque per trascorrere qualche ora in modo diverso. C’è il vento, la temperatura quindi dovrebbe essere bassa, ma contenuta. Indosso tutta l’attrezzatura a disposizione: pile, pantaloni, sovrapantaloni antivento, scarponi, piumino antivento, copricapo in pile antivento, occhiali da sole fascianti, cappuccio antivento, sottoguanti e guanti. Ridicolezza è la prima sensazione che si prova dopo essersi addobbati in questo modo, in realtà basta tirare il maniglione dell’ultima porta ermetica per capire che a volte tutto non è mai abbastanza. Mi avventuro fuori dalla base, sempre su terraferma per non incappare nelle fastidiose richieste di permessi radio. Obiettivo Scott Hut, il rifugio in legno che Scott ed il suo equipaggio, nei primi anni del 1900 costruirono ed utilizzarono come riparo durante la loro spedizione antartica. Una baracca in legno confortevole, ben realizzata e altrettanto curata dagli Stati Uniti che la utilizzano come museo permanente. Si costeggia un crinale di roccia nera, la stessa lava di cui è interamente composta l’Isola di Ross, dove si trova McMurdo.

Assolutamente nulla di interessante per un paleontologo, tranne qualche sporadico frammento di ossa dovuto a pasti furtivi di Skua ai danni di qualche sventurato uscito con cibo dalla mensa o resti rarissimi di animali antartici. Un oggetto mi colpisce, poco lontano dal rifugio, 4 centimetri di frammento osseo, sicuramente una costola, probabilmente di foca, con evidenti incisioni da lama di coltello. Probabilmente resti di pasto della sventurata spedizione inglese. Il vento, che durante l’allontanamento dalla base spira alle spalle, al rifugio cambia direzione non essendo più costretto dalle pareti rocciose ma libero sul ghiaccio marino. Di fronte a me, a circa 2 chilometri l’aeroporto, uno dei tre di McMurdo. Oltre questo, 80 chilometri di ghiaccio piatto reso color oro dal sole basso delle 4.00 del mattino. Il vento bianco sul ghiaccio marino dà un’idea spettrale, come un gioco di fantasmi che rapidissimi si rincorrono per scomparire qualche istante dopo. Tutto intorno è il nulla, la base dorme e l’unico rumore è quello fortissimo del vento.

Resisto per circa 15 minuti intorno al rifugio, il tempo di scattare qualche immagine e di vedere le batterie delle due macchine fotografiche esaurirsi a causa del freddo e del secco in pochi minuti. Mi avvio al ritorno, rendendomi conto dopo qualche minuto che sarà più faticoso del previsto. La strada è in salita ed il vento, ora frontale, fortissimo. Lo sforzo costringe a respirare con la bocca ed istantaneamente l’umidità emessa congela sul viso, rendendo pressoché inutili gli occhiali. Una breve sosta dietro ad un riparo per consolidare meglio il parca intorno al viso e poi via alla faticosa risalita verso la base. Impiego circa 35 minuti a tornare da dove ero agevolmente partito. All’arrivo gli occhi sono contornati da perline di ghiaccio ed il parca sul viso interamente rivestito da uno strato bianco generato dal freddo e dalla respirazione. La temperatura era di circa -40 gradi, un valore inimmaginabile che suggerirebbe di starsene al riparo, ma l’Antartide invoglia a vedere, conoscere, comprendere e curiosare…Una temperatura che con il materiale a disposizione è gestibile ma che l’assenza di allenamento sconsiglia di affrontare. Lo sforzo fisico normale risulta in queste condizioni quintuplicato, si fatica a respirare, le dita si indolenziscono e il viso perde progressivamente sensibilità. Rientrato tolgo tutta l’attrezzatura e con il ritorno alla temperatura normale, strani indolenzimenti al viso suggeriscono maggiori controlli. Principio di congelamento mi dicono alcuni veterani, superficiale e comune, capita sempre quando si esce in queste condizioni. Vedrai che tra qualche ora passerà. Generalmente la parte del corpo colpita dapprima diventa bianca, poi perde progressivamente sensibilità, fino al punto in cui, l’ustione non viene recepita dal sistema nervoso in quanto localmente insensibile. Il ritorno alla temperatura normale causa poi arrossamento, gonfiore e aumento del dolore. In questo caso nulla di grave, solo una piccola area sulla gota destra, proprio la parte esposta al vento, un segnale comunque che in queste condizioni si deve sempre prestare la massima attenzione. Ogni esperienza in luoghi del genere è sempre un’avventura, un arricchimento interiore da riportare a casa e condivide con gli amici o gli interessati, proprio come lo spirito operativo di un museo suggerisce, proprio come da qualche tempo l’anellomancante cerca di fare.

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