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INCONTRO..


28-ottobre 2006 McMurdo Antarctica

Sono trascorsi circa 25 giorni dall’arrivo a McMurdo e lo straordinario ambiente che circonda la base assume giorno dopo giorno parvenze di normalità, che mai avrei immaginato dopo aver poggiato i piedi sul ghiaccio. Alcuni imprevisti tecnici occorsi al Drill Site hanno imposto uno stop ai lavori, facendo accantonare per qualche momento l’aspetto lavorativo della missione e rendendo possibile l’utilizzo del tempo libero per soddisfare le curiosità di cui la natura è intensamente intrisa. Durante un’osservazione mediante cannocchiale della banchisa stagionale, cioè del ghiaccio marino destinato a frantumarsi entro breve tempo, ho avvistato una foca poco lontano dalla base. Ero solo, gli altri italiani miei compagni, sicuramente interessati all’evento, erano dispersi per la base e ricercarli avrebbe comportato un’eccessiva perdita di tempo. Una foca sul ghiaccio è cattivo presagio, un sintomo di “cattiva salute” della copertura: indica infatti la presenza nelle vicinanze di fori o crepacci collegati al mare dai quali questi sirenidi possono risalire per respirare e per crogiolarsi al sole. Generalmente ispezioni da parte di addetti alla sicurezza, in particolare per aree vicine alla base e alla pista di atterraggio, individuano queste spaccature, segnalandole visibilmente con bandierine nere per evitare incidenti a mezzi o escursionisti. Cadere in mare può significare, in assenza di soccorsi, shock termico dovuto alla bassa temperatura dell’acqua o la possibilità di finire aggrediti da mammiferi marini come foche leopardo o addirittura orche. In questo caso nessun pericolo era segnalato, inoltre la ridotta distanza dalla base, circa 500 metri, rendeva l’avvicinamento apparentemente privo di pericoli. D’istinto decisi di andare. Indossata l’attrezzatura di sicurezza e preparata la macchina fotografica, ho iniziato la discesa di venti minuti circa per raggiungere il punto in cui l’animale impassibile dormiva al sole. L’emozione si faceva grande passo dopo passo: una situazione del genere, vista soltanto in documentari naturalistici, mai avrei pensato di poterla vivere direttamente. Mi sono avvicinato con circospezione, osservando l’animale e soprattutto la superficie del ghiaccio circostante. Assodata l’assenza di buchi o crepacci, ho deciso di mantenere una distanza di circa 10 metri, non sapendo come avrebbe potuto reagire l’animale alla mia vista, e ho iniziato a scattare fotografie. Procedendo silenzioso l’ho aggirata e istintivamente poi, alla distanza comunque di circa 7 metri mantenuta per evitare una eventuale reazione improvvisa, ho deciso di farmi notare. L’animale stava disteso, impassibile, con gli occhi chiusi, apparentemente privo di interesse nei miei confronti. Col ridursi della distanza tra me e lei (l’attribuzione del sesso è puramente legata al nome femminile) da impassibile è apparsa allarmata, aprendo gli occhi, dilatando le narici ed iniziando a fiutare. Mi sono bloccato istantaneamente, ma la temuta reazione aggressiva non c’è stata. Era una foca di Weddel, una delle tre specie di foche antartiche, la più mansueta. In questo luogo la maggior parte delle specie di uccelli e mammiferi tollerano abbastanza bene la presenza dell’uomo, pertanto vista la mancata reazione, ho deciso di procedere arrecandole comunque il minor disturbo possibile. Giunto a tre metri mi sono fermato, ho appoggiato le ginocchia sul ghiaccio ed ho iniziato ad osservarla, incantato da questo aspetto strano e a mia volta sorpreso di essere osservato. Passato lo stupore e la straordinaria emozione, ho ricominciato a fotografare incurante del freddo e di tutto ciò che mi circondava. Non so in realtà quanto tempo io sia rimasto, sono sicuro comunque di non aver passato più di un’ora fuori dalla base, anche perché a -25 gradi il fisico comincia presto a risentirne, il viso sembra paralizzarsi e le mani iniziano ad avere seri problemi. Per un miglior utilizzo della fotocamera, mi ero tolto i guanti consapevole della vicinanza della base in caso di problemi e soprattutto della possibilità di indossarli appena necessario. Non ho valutato il tempo in cui sono rimasto con le mani scoperte, ma dopo poco le dita hanno iniziato ad indolenzirsi e la macchina fotografica a perdere funzionalità. In realtà erano le dita a non essere più in grado di comandarla. Dopo circa 5 minuti di riprese, il freddo antartico ha avuto la meglio ed a malincuore ho dovuto abbandonare il campo e interrompere l’affascinante incontro, in balia di dolori alle mani passati in seguito al riscaldamento graduale dopo l’arrivo in base. Da parte di una persona inesperta quale sono io, risulta difficile valutare la potenziale pericolosità o sicurezza di simili azioni, anche con un preciso addestramento come quello offerto dal PNRA. La differenza sostanziale tra l’Antartide e gli ambienti alpini sui quali si svolge il corso, sta esattamente nella diversità di temperatura e nel vento, qui assolutamente insopportabile. Ho valutato più volte un modo concreto per definire meglio ad altre persone come si presenta il secco freddo antartico, ma sono arrivato alla conclusione che soltanto una prova diretta possa renderne effettivamente l’idea. Ogni pensiero, ogni dolore, ogni piccola sofferenza sono scomparsi alla visione delle splendide immagini raccolte, una ventina in tutto e alcune delle quali, assolutamente degne di nota per soggetto e colori, immediatamente fatte circolare per i laboratori della base, gravitando l’attenzione di molti. Mediante la diffusione, si è saputo poi che l’animale vagava per il pack da diversi giorni, costringendo qualche giorno prima un C130 ad una sorvolazione di circa 30 minuti prima dell’atterraggio nell’attesa che la pista venisse sgomberata. Per questo motivo nei dintorni del sito di rinvenimento non vi erano spaccature del ghiaccio: l’animale proveniva da qualche km di distanza, da un’area della banchisa posta sull’altro versante della collina vulcanica che protegge la base. Questo incontro entusiasmante rimarrà indelebile per molto tempo, scritto in queste poche righe ed impresso su carta fotografica a testimonianza di un’esperienza che ancora oggi fatico a distinguere dal sogno.

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